venerdì 10 dicembre 2010

Frammento numero uno

Ho deciso, a partire da oggi, di pubblicare sul blog anche un nuovo genere di testi che, pur scrivendo da anni, sono sempre stato molto restio a far circolare.

I primi di questi testi risalgono al 2008 e, collettivamente, li ho chiamati "frammenti". Frammenti perché, pur essendo tutti in prosa, hanno ciascuno tematiche e caratteristiche formali proprie.

I frammenti sono, complessivamente, delle riflessioni personali. Risalgono a periodi diversi, ma hanno tutti in comune l'essere nati da un'impressione, un'idea, un frammento di immaginazione dilatato in breve testo.

Nelle prossime settimane, cercherò di pubblicare i diversi frammenti che ho scritto fino ad ora.


Il primo frammento risale al settembre del 2008; l'ho pensato quand'ero in vacanza, mentre la trascrizione risale a qualche settimana dopo.

La furia di Achille ebbe il suo aedo: eternata da parole immortali, la memoria è sopravvissuta nelle ere.
La sua furia non avrà un aedo.
Gilgamesh eternò la sua stessa impresa, impressa in una stele che svetta fra le tenebre dei millenni perduti.
Egli sa che non potrà fare altrettanto.

La sua ira sarà senza cantore, e le sue parole si perderanno nel vento del tempo, flebili come un sussurro: si perderà la memoria di colui che è stato veramente, e resterà soltanto un ricordo distorto, un'oscura leggenda tramandata da subdoli nemici come storia buona solo a spaventare i bambini e screditare i sovversivi.

Egli lo sa.
E questo alimenta la sua ira: non sarà la parola, non sarà il verso, non sarà la pietra né la pergamena a tramandare le sue gesta. Saranno le sue gesta a tramandare se stesse.
Dove non arriverà il messaggio arriveranno le opere. Per questo raddoppia le forze, per questo alimenta l'ira con la furia, in un'aristia che non ha fine.

Piange di rabbia e freme, sa che di lui resterà solo un'ombra, poiché il gesto è muto: come un gigante di pietra, non testimonia altro se non se stesso. La sabbia del tempo si deposita su di esso, lo corrode, e dagli eoni emerge solo una sagoma scalfita e infranta, impossibile capire chi o cosa fosse, chi l'abbia costruito o perché. Resta solo lui, l'enigma, l'evidenza e lo stupore, forse l'ammirazione per chi ha saputo concepire qualcosa di tanto maestoso.

Ma la sua furia non è maestosa, non esiste carneficina che lo sia. Uccide, mostro fra i mostri, belva fra le belve, e si distingue dai caduti solo per la sua tenacia.

Esistono ragioni per la sua ira. Motivi e ragioni ineludibili, ed essa è ineluttabile come la morte, forse è la morte.

Egli sa; conosce le ragioni, e le conoscono i suoi avversari.
Ma le ragioni si perderanno, senza memoria: la ragione viaggia con la parola, la ragione è nella parola, e la logica del suo agire non trasparirà dalle gesta, pur grandiose, che sta compiendo. Di esse resterà solo l'orrore presente, eternato nel futuro.

Non gli è data la grazia dei vinti. Per Ettore caduto furono versate lacrime, e continueranno ad esserlo. Turno vive, fra i vinti tutti, nella memoria di quei vincitori che sanno vedere il cupo circolo della fortuna, nella memoria di quanti vedono nella rovina altrui il sopraggiungere della propria.

Ma egli sarà vincitore, oggi. Padrone del campo, abbattitore delle fila nemiche.

E vinto.

Unico, realmente vinto, schiacciato dai secoli che gli impongono il silenzio e lo privano della ragione agli occhi della posterità.

E sapendo questo, egli ride; una smorfia appena fra le lacrime, e il sangue.

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