sabato 12 febbraio 2011

Frammento numero cinque

Questo è, attualmente, l'ultimo frammento che ho scritto.
E' una riflessione su quel che comporta la crescita, e sullo scoprirsi piano piano sempre più simili all'adulto che si diventerà.
L'ho scritta nero su bianco solo un mese fa, ma è un'idea su cui medito da tempo.


Verrà il momento, lo so. Se, come spero, i miei anni non si concluderanno prima, anche per me verrà quel tempo.

Si cambia un po' ogni giorno, e una parte di noi muore quotidianamente: solo gli idioti vedono il mutare come qualcosa di delimitato da un inizio e da una fine.
Eppure -è innegabile- in ogni cambiamento c'è un attimo, un brevissimo istante nel quale il processo, prima impercettibile, si palesa e i suoi effetti iniziano a emergere preponderanti rispetto al passato e alle loro stesse cause. È il momento nel quale ciò che era smette di essere, e soccombe a ciò che sarà e che già è; è il vertice del mutamento: il cambiamento continuerà, ma la via è già tracciata e nessuno sforzo o miracolo potrà resuscitare il passato.
Il me stesso passato.

L'adolescenza è l'età dei sogni, degli ideali, delle vele gonfie di ambizione spiegate al vento illusorio di un destino sofferente. È il periodo dei contrasti, del desiderio spasmodico e dell'impeto eroicomico di finta individualità, è il periodo suggestionabile e colmo di orrori in agguato del sogno ad occhi aperti. Ma il sogno finisce, e raramente è profetico.
Quando l'adolescenza passa, e poco a poco ci si scopre ogni mattina più simili all'uomo che al ragazzo, dei sogni di un tempo restano solo i cocci e qualche pallida rappresentazione, sbiadita come un sole di cartone gettato a terra in un giorno di pioggia. E i tuoi compagni di sogni, questi fratelli di speranza, non sono immuni a tale disincanto.
L'amico dell'infanzia? Eccolo, fucile in mano, soldato per scelta di disperazione, abbonato a un destino che lo condannerà a dispensare morte con la stessa distratta malagrazia che un giorno scandirà lo scoppio della sua ultima ora.
Lo spirito affine? Inserito, anche troppo bene, nel fango di un tempo dove ora sguazza come un pesce d'altura; metterà la testa a posto e si laureerà prima dei venticinque anni, a trenta metterà su famiglia e a quaranta divorzierà a causa di una giovane amante, naturalmente pagando alimenti a moglie e figli. Un destino già scritto e illustrato lungo il muro di cinta del tempio di Santa Banalità Borghese, protettrice di chi ha smesso di sognare.
E l'allievo, la tua speranza, quello che speravi di formare? Eccolo lì, perso in un tentativo di evasione dal dolore della realtà mediante il più squallido dei rimedi, il più banale dei mali, con il cervello sempre più sfumato man mano che il fumo stesso diventa il suo piacere massimo e il principe della sua anima. I suoi sogni non moriranno poco a poco come i tuoi, no, si avvizziranno e cadranno a terra solo per essere conservati, squallidi fiori affumicati, in una teca al museo della gioventù bruciata.

Il dolore è misto alla malinconia, perché sai di non essere da meno. Il tuo destino non è quello di un assassino a pagamento, sicario del potere, no; e non sei neppure un iniziato alla via del pescecane, promettente cenobita dello squallore chiamato società; e di certo nessuno ti può chiamare schiavo dei vizi, poiché hai finalmente imparato a dominarli.
Ma anche tu sei cambiato, e qualcosa si è rotto anche in te. Lo sai bene dopotutto, sai bene che un oggetto riparato non è un oggetto nuovo e che neppure il collante più saldo ripristina l'antica unità frantumata: resteranno sempre le linee di rottura, suscettibili al minimo urto e pronte a sfaldarsi come rughe di dolore.

Lo so bene, sì.
So che non sono più quello degli anni passati, e so che non posso ignorare questo cambiamento fingendo di riedificare un me stesso ormai trapassato.
Ma che cosa sono, chi o cosa diventerò, questo mi è ancora ignoto. È mio destino rinnegare tutti i miei ideali per disperazione? O sarà la banalità del mondo a reclamarmi a sé? O, forse, toccherà anche a me gonfiare di illusione i miei sogni fino a perdermi nel vuoto della coscienza?
Non lo so. Posso solo sperare che quel nucleo di identità, l'infinitesimale e onnipresente sistema di ideali e conoscenze, pensieri e speranze che considero “me stesso” continui a costituire il centro gravitazionale del me stesso futuro. Posso solo sperare, un domani, di poter fissare il mio volto allo specchio vedendo, oltre i tratti somatici alterati dall'età e da chissà quale futuro estetico oggi imponderabile, un uomo di cui l'adolescente che sono stato e il giovane adulto che sto diventando sarebbero andati fieri.
Una speranza umile, in apparenza. O forse no. Lo ignoro. Continuo a reclamare, nello svanire dei sogni al risveglio nella dura realtà, il mio diritto di restare sempre me stesso contro ogni avversità e seduzione del mondo.

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